martedì 11 settembre 2007
La storia di Suliman Ahmed Hamed
Edizione 183 del 29-08-2007
Intervista a Suliman / Io, sopravvissuto alle bombe sudanesi
Il “Day for Darfur” è stato organizzato dalla European Union of Jewish Students
di Stefano Magni
Suliman è arrivato in Italia come tanti altri immigrati: il 31 maggio del 2003, a Lampedusa, via mare, partendo dalla Libia. Trasferitosi a Roma, nel luglio del 2004 ha ottenuto lo status di rifugiato politico. La sua non è la storia di un africano in cerca di lavoro e di fortuna in Europa. Viene dal Darfur settentrionale ed è fuggito con grandi difficoltà dal massacro commesso dalle milizie dei Janjaweed contro la popolazione locale. Lo abbiamo intervistato in occasione del “Day for Darfur”, evento che si è tenuto ieri, nei pressi di Roma, organizzato dalla European Union for Jewish Students (un’organizzazione-ombrello che raccoglie gli studenti ebrei di 34 Paesi) e per l’Italia dall’UGEI, Unione dei Giovani Ebrei Italiani. L’interesse per il Darfur da parte della gioventù ebraica europea è storica: “Più di 450 studenti e giovani da 40 Paesi europei si batteranno a favore del Darfur” - si legge nel comunicato stampa dell’EUJS - “all’ombra della loro stessa storia e della tragedia della II Guerra Mondiale, dichiarando ancora, a voce alta: ‘Mai più’”.
Il Darfur è terra vittima di un genocidio che tuttora viene negato ufficialmente dalle Nazioni Unite (che si limitano a parlare di “crimini di guerra”). Il regime sudanese di Khartoum, dal canto suo, nega ogni responsabilità, attribuendo tutte le colpe ai popoli nomadi arabi locali che costituiscono le milizie Janjaweed, artefici materiali dello sterminio. Anzi, il regime sudanese ha accettato la Risoluzione 1769 che prevede il dispiegamento di una forza di pace mista dell’Onu e dell’Unione Africana (UA) e ora si presenta come un governo legittimo pronto a cooperare per far tornare la pace nella regione martoriata. Suliman, che ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza del genocidio, la vede diversamente: “Io sono scappato dal mio villaggio il 7 maggio del 2003, quando le nostre case sono state bombardate. Mia figlia, di quattordici anni, è morta sotto quel bombardamento” - ci spiega, raccontandoci l’inizio della sua odissea.
Come è riuscito a fuggire?
Siamo scappati con quello che avevamo: con i nostri cammelli. Da lì ci siamo diretti nel deserto in cerca di aiuto, verso la Libia. Dopo una settimana di viaggio abbiamo finito l’acqua. Per fortuna che abbiamo incrociato un camion diretto alla Libia e ci ha dato un passaggio. Siamo arrivati prima all’Oasi di Kufra, poi da lì ci siamo trasferiti in una zona agricola nei pressi di Tripoli. Girava la voce che un gruppo organizzava la traversata del Mediterraneo per l’Italia, in barca, a pagamento. Il prezzo era di 1000 dollari.
In Libia è stato accolto come un rifugiato?
No, in Libia non è possibile essere accolti come rifugiati politici. Se la polizia viene a sapere che stai fuggendo dal Sudan ti rimanda a Khartoum, dove, come minimo, finisci in carcere. In Libia puoi fermarti solo se vai come lavoratore, non come rifugiato politico.
Ora la Libia è alla guida dell’Unione Africana e un contingente della stessa UA farà da forza di interposizione nel Darfur. Cosa ne pensa?
Penso che un contingente dei Paesi africani nel Darfur non cambierà niente e non potrà nemmeno agire. Che differenza c’è fra la dittatura di Khartoum e le altre dittature africane? Io non riesco a fare molti distinguo. I dittatori africani avrebbero paura di apparire come quelli che aiutano un movimento anti-regime, come quello che combatte in Darfur contro Khartoum, perché temerebbero di subire rivolte all’interno dei loro Stati. Vedo meglio l’intervento di contingenti provenienti da Paesi europei democratici: quelli sì possono fare qualcosa.
Il Sudan ha accettato la presenza di una forza di peacekeeping. I regolari sudanesi potrebbero collaborare con i Caschi Blu?
Parlare di “collaborazione” è una strategia di Khartoum da quando l’Onu ha deciso di intervenire nel Darfur. Da quando è stata adottata questa politica, la televisione sudanese trasmette le immagini di forze di polizia schierate nella regione a protezione dei civili, ma è propaganda. In realtà, da quando ha deciso di cambiare strategia, il regime di Khartoum ha trasformato i miliziani Janjaweed in poliziotti. Ma è difficile pensare che questi “poliziotti” collaborino per proteggere i civili del Darfur.
Il governo sudanese nega ogni responsabilità per quanto sta accadendo nel Darfur, dando la colpa interamente alle milizie Janjaweed...
Gli aerei che ci hanno bombardato erano sudanesi, delle forze armate regolari sudanesi. I Janjaweed sono in prossimità dei villaggi che vengono bombardati e sono pronti ad attaccare e devastare quello che è rimasto, a bruciare le case, a rapire le donne a rubare tutto il bestiame. Ma i Janjaweed non potrebbero fare nulla senza l’appoggio dell’esercito regolare. Se combattono da soli, hanno paura delle milizie del Darfur.
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